Nelle mani del Signore

I messaggi dell’autore

La trama di questa storia si sviluppa attorno a due gemelli (Giampaolo, il sacerdote e Stefano, l’ingegnere) di cui si analizzano le vite sino all’epilogo di quella di Stefano, il quale è – se vogliamo – il personaggio principale. 

I protagonisti sono legati – come tutti i gemelli – da un vincolo particolare, che si dipana nel corso della trama; l’esame della loro vita viene condotto a partire da un fatto concreto che avviene nel 2011 e prosegue in un’alternanza passato-presente che si origina sin da quando furono concepiti e via via si sviluppa attraverso le rispettive vicissitudini, spesso intrecciate, e le loro “carriere”, sino alla malattia di Stefano, sopportata in odore di santità come quotidiana offerta a Dio.

Il primo tema nasce dal confronto tra i due protagonisti, che entrambi – e per di più allo stesso momento – avvertono la vocazione al sacerdozio, ma di cui uno solo (Giampaolo) la porta a compimento mentre l’altro (Stefano) non ci riesce. Nelle rispettive vite, successivamente a quella scelta adolescenziale, Giampaolo appare sicuramente come un buon prete, ma anche Stefano incarna pienamente i valori cristiani sino a sublimarli nella serena accettazione della sua malattia terminale. Il paragone non ha minimamente l’intento di suggerire che un laico ispirato possa essere più religioso di un sacerdote e proprio per scongiurare questa “lettura” ho voluto dipingere Giampaolo come un ottimo uomo di Dio; lo scopo piuttosto è quello di far riflettere sulle etichette che si danno alle persone e ai ruoli: è proprio vero che un “professionista” della fede (mi si passi l’espressione, un po’ irrituale) debba ipso facto essere più meritorio di un buon laico cattolico? O non è piuttosto vero – come dice Gesù – che dobbiamo andare al di là degli stereotipi e guardare al cuore delle persone? 

Se utilizziamo il termine “santità” nell’accezione di volontà di totale adesione della propria vita agli ideali di Cristo, ci rendiamo conto che essa non è qualcosa di astratto, di riservato ai “santi” che ci sono sul calendario, a persone eccezionali e perciò lontane da noi, inarrivabili: il mio vuole essere un messaggio fortemente positivo, che la santità è possibile ed è raggiungibile da ciascuno di noi, da chiunque si ponga con cuore puro in ascolto del Signore. E ciò prescinde dalle etichette che noi affibbiamo o dal fatto di essere perfetti: Dio non ci ha mai chiesto la perfezione, non se ne fa nulla della nostra perfezione! Dio ci chiede “solo” di essere umili e sinceri, di cercarlo sempre e di avere il coraggio di chiedergli aiuto quando siamo in difficoltà e perdono quando abbiamo sbagliato.

Questo concetto vale esattamente allo stesso modo tanto per un laico quanto per un religioso, perché in primo luogo siamo tutti esseri umani.

Letta dal lato opposto, questa affermazione deve suonare da monito a taluni laici che si forniscono l’alibi che certe cose non toccano a loro in quanto non sono dei consacrati: non vi è nulla di più sbagliato, nessuno è esentato dal contribuire alla costruzione del Regno di Dio e nessuno è tenuto istituzionalmente a farlo più di altri. Dio in questo è assolutamente democratico, non fa distinzione alcuna tra i suoi figli, come è giusto che sia.

Il secondo tema, altrettanto forte e con risvolti sociali più lati, deriva dal modo in cui Stefano accetta la sua sorte di malato terminale. 

Di recente è assurto persino all’onore delle cronache politiche il dibattito sull’eutanasia, circa il fatto che sia eticamente lecito e quindi penalmente non perseguibile dare una “morte buona” (come etimologicamente il termine stesso indica) a una persona senza speranza di guarigione che ne faccia richiesta.

In passato si era dibattuto con ancora maggiore veemenza sulla liceità dell’aborto ovvero se fosse anche qui eticamente corretta la decisione da parte di una donna di sopprimere una vita in fieri (e lungi da me addentrarmi in una dissertazione medica circa l’esistenza o meno della vita nel feto).

Vedo in entrambe le tematiche una radice comune: il senso della vita e la “proprietà” della vita. Secondo una visione laicistica, la vita appartiene a chi la possiede («la vita è mia e ne faccio ciò che voglio», quante volte abbiamo sentito questa frase pronunciata anche in modo sprezzante, a giustificazione di chi si andava auto-distruggendo con eccessi di ogni genere!), ma secondo la visione cattolica la vita appartiene a Dio che ce l’ha data come dono gratuito e quindi ciascuno di noi ha verso la vita il dovere di difenderla, condurla nel modo migliore e accettarla in qualsiasi frangente, anche nel più disperato.

Ecco, la posizione di Stefano di fronte alla malattia vuole essere un’incarnazione di questi principi cristiani, un’esemplificazione concreta di come sia possibile – in contraltare con tanti atteggiamenti deteriori di disprezzo della vita – testimoniare la propria gioia di vivere: egli addirittura rende la sua tremenda prova un’opportunità di espiazione dei propri peccati e un conseguente… accorciamento della sua permanenza in Purgatorio, oltre che naturalmente un’offerta al Signore per il bene dei suoi cari. Mi sembra che il respiro di una simile posizione la dica lunga sulla grandezza di chi riesce ad assumerla sulla propria pelle.

Il terzo tema si collega al precedente. Se notate, all’interno della narrazione sono molti i momenti in cui qualcuno dei protagonisti parla espressamente di Dioo con Dio o si trova impegnato in una sorta di omelia.

A coloro che hanno avuto modo di leggere la mia prima opera (“Le dieci fortune”, del 2020) non sfuggirà certamente l’esplicito fil rouge che unisce le due storie: la volontà dell’autore di parlare di Dio. L’intento è assolutamente esplicito e il mio auspicio è che attraverso questi libri anche un solo lettore possa aver convertito il proprio cuore e scoperto l’amore infinito di Cristo: così concludevo la citata opera di esordio e così voglio augurarmi anche a suggello di questa.

Il messaggio forte è quello della centralità del rapporto con Dio nella nostra vita: se abbiamo il dono della fede, esso non è un optional, qualcosa che possiamo accendere o spegnere a nostro piacimento, o una virtù derivante dal nostro essere buoni; piuttosto, esso è la risposta a una chiamata, il nostro corrispondere a Dio che ci ha creati e ci ama infinitamente (individualmente, ciascuno di noi, in un modo diverso e particolare). E nel corrispondere a Dio realizziamo pienamente noi stessi, in un modo unico e insostituibile cui nessuna esperienza umana – per quanto bella e totalizzante – potrebbe mai arrivare.

Sul tema, un’ultima annotazione che vuole esprimere una punta di rammarico. L’intento esplicito di veicolare un messaggio profondamente cristiano era – come detto sopra – già del tutto riconoscibile nel mio primo libro e sono certo che diversi sacerdoti l’abbiano preso in mano e credo l’abbiano anche letto; eppure nessuno di loro, né tantomeno la Chiesa come istituzione, mi ha reso una recensione positiva, si è complimentato, mi ha incoraggiato o citato in alcuna circostanza, in un’omelia, in una chiacchierata con i fedeli… 

Ecco, questo atteggiamento (o, meglio, questo non-atteggiamento, giacché non vi è stata alcuna reazione, né positiva né negativa) mi è dispiaciuto e mi ha deluso, in quanto ero convinto che i consacrati avrebbero trovato nel testo interessanti spunti di riflessione a supporto della loro attività di evangelizzazione, mentre evidentemente così non è stato. Poiché questa seconda opera ulteriormente accentua la forza del medesimo messaggio, spero tanto che essa riceva maggiore considerazione da parte del mondo ecclesiastico e delle associazioni cattoliche.

Visto che siamo ormai vicini alle festività, mi è gradita l’occasione per porgere a tutti i miei più sinceri auguri di un buon Santo Natale e un Nuovo Anno pieno d’amore, magari con in regalo un ottimo libro!