Il libro nasce da una riflessione profonda. Se guardiamo la televisione o ci immergiamo in ciò che ci circonda, l’85% delle notizie sono negative. Ovunque ci si volga, sembra che il mondo sia pervaso da un alone di negatività, una sorta di “anfetamina” dello scoraggiamento. A questo punto mi sono chiesto: cosa possiamo fare per aiutare i giovani? Aristotele ci insegna a concentrarci sul positivo; i saggi sanno che, a forza di fare il bene, si finisce per abituarsi a vivere nel bene. Così, a forza di parlare della felicità, si finisce per abituarsi a vivere nella felicità. Questo libro è nato proprio da qui, come una risposta a questa profusione di negatività che permea il nostro tempo.
Non è un invito alla superficialità o a estraniarsi dal mondo, tutt’altro. Nel libro c’è una prima parte in cui si fa un’analisi dei mali che affliggono il nostro tempo. Ma la risposta non risiede nelle lamentele o nel brontolare continuamente. La risposta sta nel dare luce, nel donare speranza e gioia. Questa è la vera antitesi alla negatività. Ho approfondito il concetto di felicità, cercando di capire cosa sia realmente. Tutti noi abbiamo sperimentato momenti di felicità: quando vediamo una bella immagine, sentiamo un buon profumo, ma sono solo momenti fugaci che soddisfano i nostri sensi.
C’è una dimensione più profonda della felicità, che si manifesta, per esempio, quando ci sentiamo parte di una squadra, di un gruppo, o quando siamo innamorati. L’innamoramento è una fase in cui sembra che il mondo intero sia fatto per noi, un’esperienza meravigliosa, ma anch’essa è limitata nel tempo. La felicità, quindi, la sperimentiamo tutti, ma in momenti brevi. Se ci chiediamo cosa sia veramente la felicità piena, credo che la risposta migliore ce l’abbia data Gesù. Mentre si avviava verso la croce, nel momento più tragico, disse ai suoi discepoli: “Che la vostra gioia sia piena.” Ecco, se dovessi dare una definizione di felicità, direi che è quella gioia piena, non fatta di momenti sparsi, ma di una pienezza che su questa terra non raggiungeremo mai completamente, perché la nostra felicità è legata a quella degli altri. Finché gli altri non saranno nella gioia, nemmeno noi potremo raggiungere la pienezza.
Tuttavia, la felicità è un cammino. Mi sono chiesto nel libro: si può educare alla felicità? Si può insegnare ai nostri figli ad essere felici? Certo, e soprattutto attraverso strumenti semplici e pedagogici. Pensiamo agli scout, un’associazione straordinaria che educa i bambini e i ragazzi: è possibile educare alla felicità perché tutto può essere educato. Non a caso, nel Vangelo, Gesù è chiamato “Maestro”. Alla luce del Maestro che è Gesù, possiamo essere educatori.
Nell’ultima parte del libro approfondisco il concetto di educazione. Educare non significa solo dire o fare, ma soprattutto avere uno sguardo di luce, uno sguardo nuovo. La realtà non è ciò che vediamo, ma ciò che facciamo esistere. Facciamo un esempio: se descriviamo una persona solo attraverso i suoi difetti, la presentiamo in modo negativo. Ma se ci concentriamo sui suoi pregi, pur parlando della stessa persona, ne emergerebbe un’immagine positiva. L’educatore, in particolare lo scout, è un esperto di positività, capace di vedere la luce negli altri. Inoltre, non solo deve avere questo sguardo positivo, ma deve anche essere capace di ascoltare, perché per vedere il positivo, bisogna saper ascoltare. Infine, deve essere capace di parlare all’altro.
Vorrei soffermarmi un attimo sulla parola. Nel Vangelo di Giovanni si dice che Gesù era la Parola. Con le parole possiamo fare molto male, pensiamo a tutte le guerre: prima si fanno con le parole, poi con le armi. Ma con le parole possiamo anche fare miracoli. Ecco, lo strumento educativo per eccellenza oggi è la parola. Ma come dovrebbe essere la parola? Forse sono ardito nel dirlo, ma credo che la nostra parola dovrebbe riflettere la stessa parola che Dio usa con noi. Dio, che è uno solo, non è solo: è in compagnia, una compagnia che ci insegna che anche la nostra parola dovrebbe essere polisemica, in compagnia. Una parola che dà sostanza.
Nel libro, ho diviso questo concetto in tre aspetti: il primo è l’empatia, che assomiglia a Dio Padre, il quale è vicino a noi. Il secondo aspetto è la verità, rappresentata dal Figlio, che è la verità delle cose. Il terzo è il sostegno, simile allo Spirito Santo, che ci sostiene. Il modo in cui dovremmo parlare tra di noi, quindi, dovrebbe essere ternario: empatia, verità e sostegno.
Facciamo un esempio: se un ragazzo commette un errore, non dovremmo dirgli semplicemente “hai sbagliato”, come si faceva una volta. La prima parte del discorso dovrebbe essere di empatia: “Mi dispiace che tu abbia fatto questa cosa.” La seconda parte dovrebbe chiarire l’errore: “Hai sbagliato qui, qui e qui.” Ma è fondamentale la terza parte, che guarda al futuro: “Sono sicuro che la prossima volta farai meglio, sono certo che saprai cosa fare.” Questo approccio aiuta la persona a entrare dentro di sé e a scoprire la ricchezza che ha dentro. Come diceva Maria Montessori, una donna straordinaria e profetica, educare non significa fare qualcosa all’altro, ma aiutare l’altro a scoprire la bellezza che già possiede.
Questa è la felicità: la gioia di scoprire che dentro di noi ci sono tante cose belle.
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