di Gabriele Vecchione
Ci spaventano, talvolta, i nostri pensieri. Sono ingestibili, ossessivi. Ci assaltano nelle ore di buio, quando siamo più indifesi, facendoci immaginare catastrofi, lutti, eventi angosciosi. Suscitano ansia, appena svegli. Tolgono energie e causano tedio, quando siamo a metà giornata, affaticati ma impossibilitati a riposare.
Pensieri suicidari, pensieri di invidia, di auto-svalutazione, di tristezza, di lussuria, di bestemmia, di rassegnazione, d’inadeguatezza. Frasi che raminghe si aggirano nel nostro sistema psico-spirituale: “Non vali nulla”, “non sei figlio”, “sarebbe meglio che tu non ci fossi”, “tanto tutto finirà”, “bisogna accumulare”, “che male c’è?”, “lo fanno tutti, fallo anche tu”. Frasi che si scrivono sul nostro corpo, ingobbendolo, incupendolo, invecchiandolo, smagrendolo o ingrassandolo, provocando occhiaie, disturbi psico-somatici. Perché con i nostri pensieri malvagi noi tendiamo erroneamente a identificarci, come fossero una parte di noi, come fossero noi tout court.
Alcuni pensieri derivano dall’ambiente in cui siamo cresciuti e in cui viviamo, da nostre antiche consuetudini, dalla nostra debolezza e non necessariamente dalla nostra malizia, oppure dalle suggestioni del nemico della natura umana; non sono propriamente nostri, non sono noi. Noi non siamo solo quello che facciamo, né solo quello che pensiamo. Siamo molto di più.
Come poter curare il nostro intelletto spirituale?
Il primo passo è conoscere i nostri pensieri senza paura. Nel colloquio con Nicodemo, Gesù dice: “Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere” (Gv 3, 20). Per paura di essere riprovati, talvolta preferiamo accovacciarci nelle tenebre, pensando grossolanamente che le cose che ignoriamo o di cui non parliamo non esistano. Spesso siamo così intelligenti da rimanere altamente funzionali, benché alle prese con i nostri pensieri malvagi, e così non falliamo mai clamorosamente e non ci decidiamo mai a iniziare un percorso serio di conversione. Nella fede cristiana, invece, possiamo non aver paura di noi stessi e di ciò che potremmo trovare dentro noi stessi, perché siamo giustificati in partenza: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 8). La crocifissione di Cristo significa, tra le altre cose, che noi possiamo accedere a noi stessi senza paura, accompagnati negli inferi, tenuti per mano da lui, come un padre tiene salda la mano del figlio quando costeggiano un dirupo.
Il secondo passo è nominare i nostri pensieri, manifestarli a un confessore, a un padre spirituale o a una persona progredita nella via dello Spirito. “Chi si trattiene dall’esporre i suoi pensieri resta senza rimedio”, dice Doroteo di Gaza, eremita del VI secolo. Parlare attingendo a sé stessi è terapeutico in sé. Parlare della propria ombra a un’altra persona è un esercizio di umiltà, che è una virtù in grado di risollevare da qualsiasi gorgo.
I non-detti, al contrario, frutto dell’orgoglio, rompono matrimoni e amicizie, ingigantiscono le paure, fanno prosperare le tentazioni, schiantano il cuore.
Ignazio di Loyola, negli Esercizi Spirituali, paragona il nemico della natura umana a un falso amante che di notte va a lanciare i sassetti alla finestra della moglie di un buon marito allo scopo di farla scendere e di possederla. La possibilità di realizzare la sua intenzione depravata è il silenzio della moglie. Infatti, se la donna dicesse al marito della presenza tentatrice del seduttore, questi non avrebbe scampo. E allo stesso modo, scrive Ignazio, “quando il nemico della natura umana presenta a una persona retta le sue astuzie e le sue lusinghe, vuole e desidera che queste siano accolte e mantenute segrete; ma quando essa le manifesta a un buon confessore o ad altra persona spirituale che conosca gli inganni e le malizie del demonio, questi ne è molto indispettito; infatti, capisce che non potrà riuscire nella malizia iniziata, dato che i suoi evidenti inganni sono stati scoperti”.
Il terzo passo è fuggire i propri pensieri, con l’ironia o con delle sane distrazioni. Filippo Neri leggeva spesso barzellette, portava le scarpe di due colori diversi, faceva spaventare le persone che entravano in chiesa nascondendosi dietro la porta d’ingresso, girava per Roma con mezza barba fatta e mezza no. Lo faceva sì per crescere nell’umiltà con il disprezzo altrui e smitizzare la fama di santità di cui godeva già in vita, ma anche per far ridere i suoi figli spirituali. “Scrupoli e malinconia fuori da casa mia”, soleva dire. Quando siamo tristi, il peccato prospera e diventiamo cattivi; quando siamo felici, non abbiamo bisogno di peccare e siamo capaci di bontà. Alle volte con i propri pensieri malvagi occorre scherzare, non prendersi sul serio, lasciarli perdere, tornare alle attività quotidiane, distrarsi con qualche pezzo comico su YouTube. Con i pensieri malvagi vince chi fugge, vince chi non apre il dialogo. Invece i sensi di colpa, le autoanalisi infinite, le auto-giustificazioni, le razionalizzazioni sono tutti modi di dialogarci e di renderli più poderosi.
Il quarto passo è combattere e sostituire i pensieri malvagi con la Sacra Scrittura. I padri del deserto, oltre alla pratica della manifestazione dei pensieri, consigliavano – sull’esempio di Gesù nel deserto (cfr. Lc 4, 1-13) – di scegliere delle parole della Scrittura da usare sia come scudo sia come dardo contro i pensieri malvagi. Tale pratica è denominata άντιρρητικός (antirrētikòs, colui che contraddice). Si tratta di scrivere sul cuore, di mettersi in tasca o nel portafoglio, di ripetere mentalmente o anche vocalmente un versetto della Scrittura da ripetere spesso e ovunque ci si trovi, per ricordare l’amore di Dio, per ricordare che noi siamo l’oggetto dei suoi pensieri e della sua cura. Se, per esempio, siamo tristi perché ci sentiamo abbandonati da Dio, possiamo ripetere: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io, invece, non ti dimenticherò mai” (Is 49, 15-16). Paolo raccomanda ai Filippesi: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4, 8). Se noi coltiviamo pensieri buoni, non possono germogliare pensieri cattivi. Se noi ruminiamo la Sacra Scrittura, i suoi pensieri si pianteranno nel nostro cuore. E se piantiamo rose, non può crescere il cardo, come si dice ne Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett.
Ci spaventano i pensieri malvagi, ci fanno credere di non poter essere amati. Se, effettivamente, in un qualsiasi cinema fosse trasmessa la pellicola del film dei nostri pensieri, gli altri, indignati, andrebbero anzitempo via dalla sala. Noi stessi ne rimarremmo inorriditi. Ma il Signore quel film lo conosce: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri… La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta… Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti” (Sal 139, 1-2.4.8). Con il Signore funziona così: ogni nostra debolezza accende in lui un fuoco d’amore più intenso.