Ancora non hai figli? È colpa tua

Conosco molto bene quell’esalazione stomachevole che si annusa (a volte) nelle conversazioni in cui si parla di figli che tardano ad arrivare. Livia ne parla splendidamente già da due libri.

«A quando un figlio?», «Perché non buttate la televisione?», «Provate a sedervi sulla sedia della fertilità!», «Perché non andate da quel luminare?», «Ma ci state pregando?», «Insomma, ancora niente?».

Dietro a queste battute si nasconde, spesso ammantata da un velo di cattolica ipocrisia, l’ombra della colpa.

Forse tu e tuo marito non fate abbastanza l’amore. Forse non vi state impegnando fino in fondo, forse non vi state affidando ai medici giusti. Forse avete qualcosa che non va. Forse non state pregando abbastanza, o forse non siete pronti… Puzza di colpevolizzazione. Mette a disagio, ti fa venir voglia di fuggire o di lanciare un secchio d’acqua addosso al tuo interlocutore, a scelta.

Un giorno, quando ero in attesa della mia prima adozione, incontrai al supermercato una mia amica (di quelle cristiane con le stellette al bavero) la quale mi chiese quanto avessimo ancora da aspettare prima di essere chiamati. Le raccontai che avevamo avuto alcune difficoltà nelle pratiche e che i tempi si erano allungati, con nostro grande dispiacere, visto che eravamo già abbastanza provati dai dolori del percorso adottivo. Bene. Dopo avermi improvvisato un’accorata catechesi davanti al banco frutta, ebbe l’insano coraggio di “consolarmi” dicendo che probabilmente questo figlio ancora non arrivava perché Dio voleva farci maturare ancora un po’.

Nessuno si sognerebbe mai di dirlo apertamente – in fondo siamo tutti un po’ buoni e un po’ buonisti quando abbiamo a che fare con i dolori degli altri – ma inizio a sospettare che di tanto in tanto riaffiorino, sul tema, vecchie e insensate convinzioni. Come, ad esempio, quella secondo cui la sterilità sia una specie di castigo o, peggio ancora, una maledizione che incombe sulla coppia.

Vi sembra esagerato? Sapete quanta gente va dal mago perché non riesce a rimanere incinta?

Ecco, Livia in queste pagine ci ha appena descritto che si può, anzi, si deve, essere felici e fecondi anche senza figli. Sembra una bestemmia, lo so, ma non lo è.

La vera bestemmia è affermare che un figlio sia la “ciliegina sulla torta” di un matrimonio. Che sia un merito che spetta ai più bravi (o a quelli che hanno “maturato” abbastanza). La bestemmia è credere che un figlio possa essere un appiglio di salvezza per un rapporto altrimenti in declino. Che debba diventare la nostra ragione di vita, un pungiball in grado di assorbire i colpi della nostra insoddisfazione. O, peggio ancora, il riscatto dai nostri fallimenti.

Insomma, se la coppia non è in grado di godere pienamente dell’amore, di assaggiare il paradiso in terra, smetta pure di rincorrere le gravidanze a tutti i costi. E, aggiungo, impari a rispondere a tono alle persone impiccione, maliziose e pettegole.

Il primo figlio della coppia è il “noi”, come ama ripetere Cristina Righi, autrice della prefazione.

Le faccio eco e confermo: il primo figlio che la coppia è chiamata a generare è la relazione stessa. Quante coppie, sebbene fertili, non sono feconde? Quante coppie, ahimè, sebbene possano anche fare tanti figli, sono infelici? La fecondità non ha necessariamente a che fare con la fertilità, ha a che fare con la felicità. Ed è un dono di Dio. Infatti, la fecondità non è della coppia, ma per la coppia. Affinché non viva più solo per sé stessa. Affinché diventi capace di donarsi e di avventurarsi là fuori, oltre il recinto del proprio giardino.

Quanto è facile mettere al mondo dei figli? Ci riescono anche i cagnolini. Dunque, cos’è un figlio? Alcuni talebani dei diritti dicono che sia un diritto, appunto. Altri, giustamente, dicono una benedizione. Una volta, ho sentito affermare con ribrezzo che i figli sono “un investimento”, cioè qualcosa da far fruttare.

Chi non può avere figli gode di un punto di osservazione privilegiato, perché per lui è molto immediato capire cosa sia un figlio: un dono. Niente di più e niente di meno.

Un dono da accogliere, da scartare piano piano. Un dono di cui stupirsi, un dono per cui ringraziare. Un dono è qualcosa che viene da fuori di te. Non è qualcosa che ti fai da solo ma qualcosa che ricevi. E finché sapremo questo, ovvero che tuo figlio non è tuo, saremo anche sicuri di trattarlo come un dono, mai come una proprietà, un diritto, un coronamento, un investimento, una ciliegina, un’ancora di salvezza, un “mini-me”.

Ma che bello che questo libro si concluda lasciandoci in sospeso!

Bello perché questa piccola delusione che sentiamo salire mentre leggiamo le ultime righe viene a dirci una verità: non può finire così. Alla delusione, fateci caso, fa sempre eco la speranza. Se siamo delusi è perché il nostro cuore aspira a cose più grandi, più nobili, più alte. La delusione ci fa un grande favore: ci ricorda che siamo fatti per la grandezza.

Allora, grazie Livia per queste pagine piene di aspirazione, e grazie anche alla protagonista del tuo libro. Tu la conosci, portale il nostro abbraccio più caldo.